mercoledì 18 marzo 2009

Il palazzo vivente














(continua dal post precedente)

Poiché il complesso di Padmanabhapuram si estende in larghezza (non si sale più di due piani) la visita è una passeggiata rilassante in un fresca giungla di palissandri, tek e mogani intagliati, levigati, scolpiti. I colori scuri e caldi dell'ambiente favoriscono la concentrazione e a tratti vengo assalito da un senso di riflessiva vertigine, come se i raja di Travancore avessero voluto creare in questo luogo non una delle tante rappresentazioni del potere temporale, ma uno spazio libero da ogni influenza sulla mente. Dunque anche la sontuosità e lo sfarzo sembrano al servizio di un fine superiore e insieme più umano. Per contrasto mi vengono in mente il delirio d'onnipotenza di Versailles o dell'Hermitage, la metafisica del Quirinale o la mistica dell'Escorial. Tutti luoghi che schiacciano l'umano e lo fanno sentire inadeguato e dove l'architettura è metafora, cioè rimando ad altro. Ovunque in occidente viene messo in scena una comparazione con l'esterno - in definitiva un'assenza. Ma qui a Padmanabhapuram tutto si rivolge all'interno, attraverso la luce che viene dolcemente catturata e guidata, come su questi pavimenti neri e lucidissimi (ottenuti con una miscela di gusci di cocco abbrustoliti, sabbia, albume, laterite e calce), che ci rimandano un'immagine sfumata e tremolante dei nostri corpi.


Dopo la stanza del talamo reale, composto da 16 essenze lignee scelte dai medici ayurveda, la visita prosegue nell'elegante sala per le rappresentazioni di musica, teatro e danza, l'unica in pietra con pilastri scolpiti in stile vijayanagara. Ma ormai mi è chiaro che Padmanabhapuram è un'architettura sensuale e vivente, il capolavoro che i raja avevano pensato come luogo di ristoro non solo dei propri corpi, ma delle loro anime.