sabato 29 novembre 2008

Il monaco e l'asceta




Kanyakumari, 31 ottobre 2008

Il mal di gola e un senso generale di malessere mi hanno accompagnato durante tutto il lungo viaggio in auto da Madurai a Kanyakumari, la cuspide estrema dell'India, dove i tre mari che bagnano il continente s'incontrano e si mescolano: Golfo del Bengala, Oceano Indiano, Mar Arabico. Qui giungono pellegrini da tutto il paese per ammirare l'alba e il tramonto che, caso assai raro, possono essere ammirati da un unico punto di osservazione. Ho bisogno di una pausa dopo le frettolose e impervie visite di Trichy e Tanjavur e sono fortunato perché il Vivekananda Kendra, l'ashram dedicato al mistico e filosofo bengalese, offre camere con bagno pulite e accoglienti. Il Kendra è una sorta di villaggio-comunità immerso in un grande parco. Al centro c'è una scuola, una mensa, qualche negozietto e un comodo internet point, dal quale scrivo. Il collegamento con la piccola cittadina è assicurato da un bus che fa la spola avanti e indietro ogni 15-20 minuti. Sembra il posto ideale per rilassarsi un paio di giorni e infatti dopo un breve passeggiata allo scopo (fallito) di vincere lo stordimento, rientro nella mia stanza e crollo. Non ho ancora scritto che l'unica sicurezza che ho trovato in India, in qualunque posto dove ho dormito, anche il più improbabile, sono i letti: materassi bassi e duri appoggiati quasi sempre su tavole o anche su pietra. Un toccasana per la mia schiena...

L'indomani l'alba è annunciata dall'isterico stridore degli uccelli ancora prima della campana dell'ashram. Mi vesto e mi dirigo verso la spiaggia, trovandola già presidiata da scolaresche e venditori di chai. Sono l'unico turista bianco e com'è prassi vengo fatto oggetto di domande e offerte varie. Il chiarore del cielo quasi fa pensare che il sole sia già alto e dunque la sorpresa è doppia quando appare l'enorme disco piallato all'orizzonte. Le voci degli indiani sulla spiaggia si affievoliscono e per un secondo anche i cani randagi smettono di tormentarsi la schiena sulla sabbia, contemplando il sorgere del mondo.

Al ritorno penso a quanto questo luogo sia diverso dall'Ashram di Ramana Maharshi a Tiruvannamalai, ma anche a come l'atmosfera e il ritmo siano comparabili. Vivekananda e Ramana in un certo senso rappresentano i due paradigmi della spiritualità indiana: l'asceta che vive nella grotta e il monaco errante. Per quanto le analogie siano qui particolarmente arbitrarie, si potrebbe forse trovare un parallelismo cristiano fra lo spirito dei francescani e quello - per esempio - dei missionari cappuccini.

Anche i luoghi dedicati ai due santi riflettono in fondo la complementare diversità dei due messaggi, entrambi radicati nel Vedanta. Il Kendra, con i suoi viali alberati che sboccano nel triplice mare, è una consapevole metafora topografica del messaggio di Swami Vivekananda, tutto proteso verso l'esterno. E' noto l'impegno del monaco bengalese in campo sociale (le scuole a lui dedicate in tutto il paese ne sono un esempio), nonché il suo grande sforzo ecumenico, esemplificato dal famoso discorso di Chicago, pronunciato al Parlamento Mondiale delle Religioni l'11 settembre 1893. Tanto il Kendra, con il suo museo iconografico, il centro culturale, gli edifici ampi e accoglienti invita all'apertura e all'esplorazione, tanto l'ashram di Sri Bhagavan, costruito ai piedi della montagna sacra Arunachala dove Ramana meditò per oltri venti anni, è uno scrigno che riflette la profondità interiore, il raccoglimento, la contemplazione. Ciò che conquista dell'India è precisamente questo movimento plurale dello spirito: l'uno, al termine di un lungo percorso fatto di meditazione e Yoga, ma anche di contatto compassionevole con gli uomini, punta il dito sulle contraddizioni sociali e invita il popolo indiano a risollevarsi; l'altro, sereno e impassibile, punta il dito verso il self, il sé, il primo e l'ultimo luogo dell'uomo, baricentro dell'universo. Comprendere che non v'è contraddizione fra il grande oratore che sprona all'azione e l'eremita quasi muto che invita alla "rimozione" del mondo fenomenico, è l'essenza stessa della filosofia Advaita-Vedanta.

giovedì 27 novembre 2008

Omaggio a Bombay



Trasgredisco l'ordine cronologico in cui appaiono questi commenti per tributare un breve omaggio a Bombay, colpita in queste ore da violenti attacchi terroristici.

Alle 21.15 di mercoledì 19 novembre ho preso un taxi che mi ha portato all'aeroporto di Mumbai/Bombay per rientrare in Italia. Più o meno alla stessa ora, ieri mercoledì, sono stati sferrati gli attacchi terroristici. Sono scioccato. E per varie ragioni. Innanzitutto perché la prima notte l'ho passata dietro il Taj Mahal, quell'edificio di stile indo-saraceno che ora vedete andare a fuoco su tutti i giornali. Il Taj Mahal, simbolo della ricchezza di Bombay, dove si concentra il lusso: tutte le griffes italiane hanno un negozio lì dentro. Volevo rimanere una settimana in più in India, e questa poteva essere la settimana da trascorrere a Bombay per ascoltare ancora Ramesh Balsekar, una delle ragioni di questo viaggio. Lui non poteva che vivere qui, in questa città straordinaria, onirica, inquinatissima, folle, ma tuttavia vitale come poche al mondo. Tutti mi avevano sconsigliato di rimanerci. "Ti deluderà", mi avevano detto. "E' piena di beggars aggressivi", mi avevano scritto. E invece Bombay mi ha conquistato dal primo attimo, quando in fila per il taxi all'aeroporto ho conosciuto un notabile musulmano gentilissimo, con occhi verdi sfavillanti, una barba e un sontuoso caffettano bianchi. Abbiamo fatto il tragitto insieme e mi ha spiegato le contraddizioni dell'India, incarnate dalla sua multimilionaria impresa familiare che da oltre un secolo fornisce hardware alla Indian Railway, senza essere quotata in borsa e ricevere prestiti dalle banche (è vietato dalla sua setta - scita - prestare o farsi prestare soldi con interesse). Lui in pensione, il figlio - ovvio - laureato alla London School of Economics che ha lasciato tutto e preso le redini dell'azienda familiare. E ora il buon vecchio fa crociere intorno al mondo con la sua signora. Insomma, Mumbai. Modello di convivenza fra musulmani e indù. Durante tutta la mia permanenza, nonostante il traffico, la calca, la pressione dei mendicanti e dei venditori, nemmeno per un solo minuto mi sono sentito insicuro in questa città. Molto meno ansiogena di Napoli o Palermo, tanto per dire. E questo nonostante i suoi dieci milioni di abitanti, e le immense baraccopoli che arrivano a lambire le piste dell'aeroporto internazionale. Alla "Maximum City" dedico una nuova cartella di foto, messa su stamane in fretta e furia sulla mia pagina di facebook, con tutto l'amore per il luogo che forse più mi manca di tutta l'India.

lunedì 24 novembre 2008

Star Wars















In viaggio verso Kanyakumari, 30 ottobre 2008

Madurai non è esattamente una città ma il tipico groviglio indiano di traffico, polvere e uomini. Ieri sera siamo rimasti bloccati con l'auto in un vicolo dove ogni essere vivente sembrava essersi dato convegno, possibilmente contromano. Il buon Sekar ha quasi perso la pazienza con un vecchio macilento che trainava un fatiscente carretto vuoto come i suoi occhi, ma in qualche modo siamo riusciti a raggiungere un hotel. Il prescelto è abbastanza schifoso sebbene a tre stelle, ma cedo perché stanco e affamato e la Lonely dice che sulla terrazza si mangia bene. Lonely se non dici il vero stavolta mi sbarazzo di te.

A cena ho incontrato due studentesse romane molto à la page che non mi hanno dato confidenza e beccato la mia prima puntura di zanzara sulla pancia. Bah. Un fastidioso mal di gola preso chissà come e dove mi ha impedito oggi di visitare il famoso complesso templare Sri Meenakshi. Tuttavia stamattina a colazione, dalla terrazza dell'hotel, ho visto emergere dallo spesso velo di inquinamento della città i suoi istoriati gopuram... Una visione folgorante: credo che queste elaboratissime torri coniche siano state l'ispirazione per una città di non so quale episodio di Guerre Stellari. In effetti, complice la foschia giallognola del cielo indiano, sembrano sbucare fuori dal tempo.

Precedenza

Madurai, 29 ottobre 2008

Ieri, dopo la riunione con Dominic Goodall nello splendido palazzo dell'’École française d’Extrême-Orient a Pondicherry, ci siamo messi in cammino verso Tanjavur. Anche qui solita trafila degli alberghi prima di trovare qualcosa di decente. Prima decisiva defaillance della Lonely che consiglia ("le camere sono pulite", sic!) l'impresentabile Hotel Valli, il quale oltre a essere situato in una strada oscura e fangosa, non solo è sporco, ma è infestato da zanzare d'ogni misura e tipo. E i bagni sono alla turca. Non se ne parla. Dopo una conversazione assai franca con Sekar decido di seguire il suo consiglio e prendo una stanza al Gnanam, costoso ma almeno pulito. La sera esco per fare due passi e devo dire che Tanjavur tuttosommato mi sta simpatica. Tant'è che mi ripaga con una cena davvero eccellente nel ristorante vegetariano dell'hotel.
La mattina dopo ho tutto il tempo per visitare il bellissimo tempio. Dopo la visita siamo ripartiti per Trichy, dove ho incontrato Suresh, il contatto dell'agenzia. Non posso descrivere tutta la nostra conversazione, ma mettete un segnalibro perché un paio di cose importanti ci sarebbero da dire su questo personaggio. E su quello che mi ha detto. Insieme, nel suo 'little office' in un edificio del '700, abbiamo rifatto il piano del tour e ho deciso di rimanere in Kerala due giorni in più, in modo da visitare con comodo la scuola del Centro Studi Platone. Da Trichy a Madurai ci sono volute circa quattro ore, ma la strada attraversava paesaggi affascinanti e verdissimi, colline boscose, palmeti, risaie, oltre ai soliti villaggi dell'età della pietra; però questa parte del Tamil Nadu sembra molto più ricca (forse per la terra fertile?). Il mio autista Sekar il taciturno è stato incensato da Suresh e, per carità, nulla da dire, però si tenga presente che qui ogni 10km si rischiano impatti mortali. Sempre secondo i nostri parametri, perché ovviamente per l'indiano è tutto nella norma. Per esempio è normale che il modo di segnalare lavori sulla strada, una voragine o semplicemente obbligare al rallentamento in un centro abitato siano sistemare due transenne a poca distanza una dall'altra in mezzo alla strada. Questo stratagemma, nelle intenzioni delle autorità (?), dovrebbe costringere i veicoli a rallentare, ma nella realtà impegna gli autisti in divertenti gare di gimcana. Quando poi la strada è a doppio senso è ancora più istruttivo notare la metodologia indiana di rispetto della precedenza. In genere è abbastanza semplice: il veicolo lanciato a maggior velocità e di maggiori dimensioni (spesso le due cose in India coincidono) ha la precedenza.

Il risultato di quattro ore di viaggio così è una tensione che sfibra. Ora sono stanchissimo.

In compenso oggi credo di aver messo a fuoco un paio di cose: la prima è che per me questo è il viaggio della penitenza. Me lo ha fatto venire in mente una lettura sugli asceti indù, che acquisivano grandi crediti presso gli dei con le loro penitenze. Gli standard indiani ti costringono ogni minuto a lottare contro te stesso per accettare la realtà che ti circonda, e questo è già di per sé 'praticare'. Non c'è bisogno di meditare e fare Yoga e per liberarti dell'ego quando ogni istante, qui, per un occidentale, è un esercizio di umiltà, tolleranza, comprensione. La seconda è più complicata e in questo buco sordido di internet point fa troppo caldo per scrivere ancora...

Torvaianipuram



Mamallapuram, 28 ottobre 2008

Il 27 mattina a Tiruvannamalai è arrivato a prendermi l'autista inviatomi dalla Moksha tour. Si chiama Sekar, è un cinquantenne taciturno e abbastanza prudente. Tiene molto alla sua vecchia Ambassador (un modello d'auto degli anni Sessanta qui molto diffuso) e ho notato che la mattina presto si sveglia presto per lustrarla. La prima tappa dopo Tiruvannamalai è stata Mamallapuram (Mahabalipuram), una sorta di Torvaianica subtropicale che mi ha accolto sotto i bombardamenti della festa di Dewali, che comincio a odiare cordialmente. Non capisco bene per quale motivo questa città attiri tanti turisti. La spiaggia è enorme ma il mare non è proprio un gran che e il casino sovrasta ogni cosa. Tuttavia i templi sono belli e vale la pena fermarsi un giorno per visitarli. A Mamallapuram ho fatto la mia prima esperienza di "ricerca disperata di hotel". Sarà l'unica costante ansiogena del viaggio, perché tra l'altro la Lonely Planet (possino cecalli) è totalmente sballata riguardo ai prezzi: qualsiasi costo riportato nella guida (ed. ital. 2008!), da un hotel al prezzo di un biglietto di un museo, va aumentato in media del 30%. Seccante.

Fatto sta che al terzo tentativo mi viene offerta una vera topaia a 600 rupie ("budget room", dice il tipo) infestata di zanzare e con lenzuola lerce nella quale resisto venti minuti, poi quando il tipo mi dice che l'uso della piscina non è incluso (ma fa un caldo boia!) mi irrito e cedo passando a una stanza decente a 850, "If you are happy, we are happy", dice il tipo e proprio non riesco a odiarli questi indiani, anche quando ti mettono nel sacco.

La visita ai templi di Mamallapuram (Five Rathas e il grande parco dove c'è il bassorilievo di Arjuna's Penance) è abbastanza veloce, anche perché la cittadina è veramente poco attraente. A rendermi nervoso ci si mette anche la macchina fotografica: due memory card su tre si sono sputtanate e solo Brahma sa perché.

Verso le venti ho cenato con una grigliata di ottimo pesce al famoso Moonrakers, ero il solo avventore e dopo un po' i due giovani camerieri si sono seduti di fronte a me per chiacchierare. Subito la raffica di solite domande indiane: come ti chiami, di dove sei, che lavoro fai, sei sposato, hai figli, ecc. Solita divertita meraviglia quando si dichiara il proprio stato di celibe: "uuhh. Why?". Ho notato che gli indiani appena capiscono che sei italiano si sdilinquiscono, giacché siamo gli unici europei che possano competere con la loro attitudine ciarliera.
Dopo mangiato ho fatto un giro - solita fatica per respingere le profferte a entrare dentro gli innumerevoli negozi di artigianato (di gran moda gli shop tibetani) - e ho trovato un piccolo ciabattino che in un'ora ha rimediato al furto nell'ashram sfornandomi un paio di bellissimi sandali neri "Ghandi style". Me ne sono tornato orgoglioso in hotel con le mie chappal nuove...

I piedi di Shiva



Tiruvannamalai, 26 ottobre 2008

Stamattina alle 6.20 siamo partiti dal cancello posteriore dell'ashram per andare sino in cima alla montagna. E' stata una salita molto faticosa, sebbene la giornata fosse ideale per camminare: nuvoloso ma senza pioggia. Ma si sudava, e ho dovuto costringere Erul a fare molte pause. Lui con i sandali -non so come- saliva meglio di me che portavo regolari scarpe da trekking. Per la strada per fortuna nessuno dei pericolosi beggars e assaltatori dai quali ero stato messo in guardia - tranne un vecchio con le gambe dritte e secche che non ha preteso più di una rupia per una pietra nera e lucida ("it gives you good vibrations, Sir"). Come no.

Più salivo e più pensavo, ascoltando gli assordanti rumori di botti e clacson che salivano dalla città (domani inizia la famigerata festa di Dewali, al cui confronto impallidisce anche il capodanno campano) che oggi per Ramana sarebbe stato duro meditare come faceva i primi del '900. E mi domadavo perché ero voluto salire quando tutto è così cambiato. Poi finalmente, dopo aver avvistato qualche fagiano la nebbia ha cominciato a salire insieme a noi, avvolgendoci. Un cane macilento e solitario ci osservava dalla punta di una roccia (forse aveva visto troppi film western e pensava di essere un coyote). Da quel punto in poi ho cominciato a sentire qualcosa, dopo cinque giorni di attesa. I rumori umani hanno cominciato a giungere attutiti, come se avessimo passato un confine. E arrivati in cima, avvolto da una nebbiolina mistica e accompagnato da due cani, un maschio e una femmina, è spuntato fuori lui: Jadi, un giovane Sadhu con un turbante improvvisato e per vestito il solito straccio ocra intorno ai fianchi. Non so se la cosa fosse studiata, ma il colpo di scena gli è riuscito perfettamente. Alla sua destra un recinto e due capanne sudicie di legno, carta, plastica. Ci ha fatto segno di fare silenzio e di toglierci le scarpe. Siamo entrati. Facendoci strada, ci ha invitati dentro una delle due capanne, quella più grande. Alla mia sinistra tre o quattro scimmie, a circa due metri di distanza, ci osservavano come ospiti la cui desiderabilità va valutata attentamente. Il mio cuore ha avuto un piccolo sobbalzo: mi sarei mai addentrato in un posto simile in qualsiasi altro contesto? Ma soprattutto, potevo credere a questa scena onirica che sembrava uscita da un film di Kurosawa?
Il Sadhu ci ha invitato a sedere su due sacchi e, con mio immenso terrore, ha attinto da un contenitore annerito dal fumo un liquido che ci ha porto dentro gusci di noci di cocco. Ho dovuto sorbire qualche goccia. Era un tè al ginger. Buonissimo. Anche i cani sono entrati e si sono accocolati alla nostra destra. Uno aveva gli occhi quasi totalmente mangiati dalla cecità. Eppure erano di una sconfinata dolcezza, così come Jadi. Per qualche minuto ha continuato a stare in silenzio, un silenzio che mi ripagherà per sempre di questo viaggio.

Jadi finalmente ha parlato e una delle prime cose che ha detto è che non potevo scattare foto. Ne sono stato contento. Poi mi ha chiesto se meditavo con l'aiuto di "books", e con la mano ha indicato il petto: "è da qui che parte la meditazione". Siamo usciti e ci ha accompagnato sulla cima, uno spiazzo molto grande completamente annerito dal ghee (burro chiarificato) che fa da combustibile durante la cerimonia dell'accensione della fiamma di Shiva (Deepam festival). La leggenda infatti dice che qui sarebbe apparso Shiva sotto forma di lingam di fuoco, e sulla roccia è ancora visibile l'orma dei suoi sacri piedi.

Io non so se costui insceni questa commedia con tutti i turisti che salgono sulla montagna, ma non credo abbia importanza. E' sempre un uomo nudo che vive in una capanna a quattro ore di salita dalla civiltà, e lo rispetto. E poi qui tutto è reale e insieme non lo è. Non serve inseguire una
tesi. Il confine fra il materiale e lo spirituale qui non solo non esiste, ma non è concepibile. Non ha senso.

E a ricordarmi di che pasta sia fatta la realtà, stasera dopo la meditazione mi hanno fregato i sandali. Con Shiva non si scherza...

Quinto giorno


Tiruvannamalai, 25 ottobre 2008

Oggi sono riuscito a telefonare a mia madre e ho fatto un bel giro in motorino intorno alla montagna e poi in città (si fa per dire). Il percorso intorno ad Arunachala è una tappa obbligata per i pellegrini hindu e la strada è costellata di piccolo templi, vasche e santuari, frequentati da sadhu e pattugliati da numerose scimmie. Mi ha accompagnato Erul, un ragazzo carinissimo di venti anni che insieme ad altri gestisce l'internet point di fronte l'Ashram. Per ora sono le sole persone con le quali sono riuscito ad avere un contatto umano e un dialogo. Gli occidentali che si aggirano per l'ashram infatti hanno un'aria infastidita, come se la presenza di altri occidentali turbasse il loro bel sogno di spiritualità. Giustamente dopo aver trasformato metà del mondo in una banca e l'altra metà in una cloaca, l'occidentale se ne vuole stare in pace a meditare...

Il monte Arunachala è il luogo dove secondo gli hindu è apparso Shiva sotto forma di un lingam di fuoco, e da qui viene il nome del tempio. Tiruvannamalai è la quarta città sacra dell'India, ma io di sacro per ora non riesco a vedere quasi nulla. Come si fa ad aprirsi alla spiritualità di fronte a
tutta questa materia in decomposizione perenne? O quando qualsiasi persona cerca di spillarti quattrini? E' questo il dilemma, per me. Per ora. Poi vedremo. Non so. Sono aperto a tutto, sebbene ancora sotto choc.

Ah, oggi è stato il giorno dell'avvistamento dei primi animali 'esotici'. Alcuni non so nemmeno descriverli. Però che emozione quando ho visto una sorta camaleonte-iguana (?) nel giardino dell'ashram! Era piccino e timidissimo. E poi ho fatto un sacco di foto alle scimmie sacre, che tipetti. Sono aberranti, stanno sugli alberi a scaccolarsi con il resto della famigliola mentre i poveri fanno la fila nell'Ashram per ricevere la ciotola di riso e verdure, e loro lì in agguato per i resti!

Ho deciso di rimanere un giorno in più per salire sulla montagna domani. Un trekking di quattro ore, tranquillo se non fosse che qui ti terrorizzano dicendo che è pieno di assaltatori, folli ubriachi e beggars di ogni tipo. Comunque non mi porterò nulla, tranne la macchina fotografica.

domenica 23 novembre 2008

Un dio ubriaco

Tiruvannamalai, 24 ottobre 2008

Scrivo a un passo dall'Ashram di Ramana Maharshi, a Tiruvannamalai (Tamil Nadu), dove ho trovato un internet point grazie a un signore belga mio vicino di stanza che si è impietosito della mia sperdutezza. Non so descrivere dove mi trovo. E' come essere stato catapultato nel cuore di un mondo sparpagliato. Un dio in vena di esperimenti, o forse ubriaco, ha preso il mondo per la coda, lo ha tirato su, lo ha scosso brutalmente e riversatone il contenuto a
terra. Il risultato è l'India.

Uomini, donne, polli, cani, vacche, scimmie, uccelli, acqua, fango, fumo, cibo e veicoli a motore (di qualsiasi fatta, giacché forse costruiti a immagine e somiglianza del caos di cui sopra) camminano, strisciano, zoppiccano, arrancano, si sovrappongono e infine convivono nello stesso spazio. Senza una meta apparente, avanzano convulsamente verso qualcosa. E' questo, credo, ciò che più sconvolge la mente di un occidentale: la mancanza di una direzione, di un progetto. Qui l'unico progetto è esistere. O forse no. Per questo fa tanta paura e la prima reazione e' di rifiuto assoluto. Ho visto cose di ogni tipo. Uomini che conducono carri trainati da buoi dalle enormi corna dipinte a colori vivi, camion aperti stracolmi di donne in sari, vicoli inondati da cui le donne attingono acqua. Tutte queste persone, dall'uomo avvolto da stracci all'elegante donna in Sari (le donne sono in media più dignitose) perlopiù camminano scalzi. Scalzi nel lordume più totale e assoluto. Oppure dentro un tempio tirato a lucido. E' esattamente lo stesso.

E poi questi cani e queste vacche, stesi indifferenti al centro di strade dove i veicoli corrono, strombazzano e si evitano sempre per pochi millimetri. Qui è il regno della collisione mancata --ma questo forse rientra nella teoria di cui sopra, stanno ancora assestandosi? Oppure pensano che la vita sia questa: come possono immaginare un mondo diverso, cioè ordinato? Una stessa strada perfettamente asfaltata, che dopo 50 metri si trasforma in un inferno di voragini, fango, ponti semi-crollati como dopo uno tsunami. Ho fatto quasi quattro ore di auto in queste condizioni. Con un autista che si sforzava di essere prudente, credo. Sulle strade, di tutto. Mendicanti che dormono fra lo sterco delle vacche e pulitissimi bambini e bambine in divisa. Tantissimi, sempre scalzi, recarsi a scuola. Cani e uomini storpi o ciechi o in preda a malattie e deformità che noi occidentali non possiamo nemmeno immaginare.

L'unica differenza fra i veicoli e gli esseri animati è che i primi sono dotati di clacson. Comparabilmente a questo casino, gli indiani sono persone riservate e silenziose. Il clacson riflette un mistero esistenziale in India. Sono incessanti, non si fermano mai. Il clacson sostituisce e sovrasta nelle strade ogni tipo di regola. Cioè il codice della strada non si basa sulla carta, ma sul rumore. Un passo della guida Touring mi illumina e dà un fondamento ontologico a tale fenomeno. La mano destra dello Shiva danzante regge il "damaru", tamburello a clessidra che scandisce la danza cosmica: "la vibrazione sonora è la causa prima dell'essere". Tutto è chiaro ora.

A ogni angolo l'India ti prepara una lezione. L'Ashram è un luogo tranquillo e pulito, ma la doccia la devi fare riempiendo un secchio d'acqua. Le regole sono abbastanza ferree. Dentro il recinto (vedi foto al lato) è obbligatorio camminare scalzi, anche sulla terra bagnata (ho beccato la coda del monsone), e il cibo viene servito su foglie di carrubo, per terra. Si mangia con le mani, accocolati, dahl e riso che vengono 'lanciati' sulle foglie da uomini che lo attingono da secchi di metallo. Per dessert uno spicchio di mela. Oggi mi sono svegliato alle 6, ho mangiato qualche biscotto di quelli che mi ero portato (meno male), ho fatto un giro nella libreria e poi sono tornato in stanza dove ho dormito fino alle 14.

Senza un'idea




Ero partito senza un'idea precisa, tranne il mio interesse per la meditazione Vedanta-Advaita. Ma ho visto, fatto, ascoltato, odorato e percepito quasi di tutto. Sebbene la parola "tutto" non abbia senso in India. Ho bevuto tè nella capanna di un Sadhu, mangiato per terra e con le mani cibo servito su foglie di carrubo nell'Ashram di Ramana Maharshi, fatto trekking sul Nilgiri avvistando bisonti, elefanti e orsi, camminato scalzo sotto la pioggia nei templi di Kanchipuram, mangiato butter fish Tandoori a Kovalam, dormito su una tree house ad Alleppy, goduto un massaggio Ayurveda a Cochin, preso medicine da una 'dottoressa' Siddah a Trivandrum, seguito un corso intensivo di Yoga a Mysore. Eccetera eccetera. Ma gli incontri più belli, e confesso più amorosi, sono stati con le persone. Molti vengono in India per la spiritualità, ma questo è un paese profondamente materiale. Qualsiasi manifestazione, anche la più irrazionale, contempla un lato concreto. Noi occidentali percepiamo le contraddizioni dell'India, ma in realtà il segreto è che non esiste opposizione fra materiale e spirituale, entrambi gli aspetti convivono. D'altronde è in questa terra che è nato il pensiero non-dualista -- dal quale discendono Zen e Tao, elaborazioni cinesi dell'antichissimo lascito indiano.

Su consiglio di Nacho - un amico editore spagnolo che pubblica libri sul Vedanta - la mia prima tappa è stata Tiruvannamalai. Pensavo di trovare una sorta di Assisi tropicale, invece ho trovato masse umane, clacson impazziti 24/24h, bancarelle, vacche, cani, scimmie, polvere, wondering monk e pellegrini in fila al tempio insieme a venditori di ogni tipo che ti assediano a ogni angolo. Le note e le foto di questo blog non possono testimoniare nemmeno in piccolissima parte tutto questo, ma aiutano a tenere vivi i ricordi.