Sono arrivato a Kathmandu dopo giorni di grande tensione a
Roma. Come spesso accade, una parte di me non voleva partire. Due notti prima della partenza ho sognato un mostro antropomorfo
chiuso nel centro della terra, protetto da una serie di caverne concentriche,
una dentro l’altra, che io vedevo scorrere e “aprirsi”, come in un sequenza
cinematografica, fino al suo apparire, che mi lasciava terrorizzato e senza
fiato... E’ con questo stato d’animo, e un forte senso di insicurezza
addosso, che sono atterrato dopo un viaggio più breve del solito a Kathmandu.
La prima notte ho avuto un incubo: entravano nella mia
stanza del Potala e rubavano tutto. Me ne rendevo conto quando era ancora notte
e piangendo disperato scendevo alla reception e un tipo dell'albergo (nessuno fra quelli che conosco) non sembrava minimamente toccato
dalla gravità di quello che mi era accaduto, finché a un certo punto, di fronte
alla mia disperazione, tirava fuori una scusa qualunque, tipo “ma perché tu hai
lasciato tutte quelle cose in camera?”
Il giorno dopo è andata molto meglio. La mattina
tardi ho fatto colazione-brunch sotto il pompelmo del Pumpernickel e fino alle
14.30 ho bighellonato per Thamel, facendo qualche foto, esplorando con prudenza
un paio di vicoli, dove ancora sono ammucchiati i calcinacci del terremoto. Per
curiosità sono andato a vedere se la libreria cinese fosse ancora al suo posto:
era sempre lì, sotto i portici di fronte al Pumper. Ma stavolta non c’era la
ragazza cinese con la quale avevo discusso animatamente sul Tibet… Così non sono stato
distratto e mi sono messo a curiosare sugli scaffali, scoprendo subito un paio
di volumi affascinanti: uno sulla storia degli scambi culturali fra Cina e
Occidente, l’altro, scritto da una studiosa francese, sulla regione a
maggioranza musulmana della Cina, dove vive l’interessantissima etnia Hui.
Al mio ritorno in hotel ho constatato che non si trovavano
biglietti per Pokhara e ho iniziato un pellegrinaggio per le “travel agencies”
di Thamel, vere e proprie trappole (non è una metafora) per turisti che offrono
tutte gli stessi pacchetti di escursioni. Si tratta perlopiù di ufficietti scalcinati
e spesso puzzolenti di orinatoio, composti di scrivania, un omino e un computer
(talvolta questi elementi possano raddoppiare il numero, pur rimanendo
costante la proporzione). Dopo averne provati quattro o cinque, entro in uno
dove c’è una puzza più asfissiante delle altre e mi accoglie un ragazzetto dai
lineamenti tibetani molto sveglio e ciarliero. Gli chiedo se hanno biglietti bus
per Pokhara e mi risponde ovviamente di no, indicando un altro ragazzetto
mingherlino e silenzioso, il quale sarebbe impegnato a risolvere lo stesso
problema per un gruppo di loro clienti. Gli spiego che devo essere
assolutamente a Pokhara l’11 ottobre, il giorno seguente, perché devo
raggiungere un gruppo in missione umanitaria. Alla fine il tibetano sveglio
tutto contento mi dice: “prova ad andare alla bus station presto… Sono sicuro
che domani riuscirai a partire, magari in piedi ma ci riesci!”.
Con questo viatico e il numero di cellulare del mingherlino in tasca, mi avvio
al mio appuntamento con Nabin, il ragazzo wikipediano conosciuto in luglio a
Città del Messico. Quasi tutta la sera insieme al suo amico ingegnere parliamo
della situazione del Nepal e del blocco dei rifornimenti. La frase che mi
colpisce di più è “Nepal is the political playground of China and India”. Forse
è proprio grazie a loro che inizio a capire la gravità della situazione che
rischia di trasformarsi in una nuova emergenza umanitaria.
La notte stavolta scorre liscia, o si fa per dire, perché
alle 4.30 mi sveglia il gallo del Potala. Mi addormento per un’altra oretta, sognando
ancora (non ricordo che cosa ma è inerente), poi alle 5.30 inizio a
prepararmi. Il ragazzo del Potala che mi
aiuta con i bagagli è puntualissimo, alle 6.20 siamo già a Kantipath, la larga
strada dove si fermano gli autobus. Sono pochi, non più di quattro o cinque.
Le facce sperdute
e assonnate degli escursionisti occidentali non presagiscono nulla di buono e
in effetti mi ci vuole poco per capire che sarà una lotta all’ultimo
strapuntino. Come al solito colpisce e affascina la, come dire, ‘ontologica’ mancanza
di gerarchia (?) e organizzazione del “setting” orientale. Si rinnova dunque ai
miei occhi il consueto balletto in cui vari individui, di autorità variabili,
ma del tutto invisibili all’occhio occidentale, urlano, ridono, gesticolano, si
passano soldi e pacche sulle spalle, salgono e scendono dai bus, non si capisce
se come autisti, passeggeri, guide, bagarini o semplici curiosi che stanno lì
apposta a creare ulteriore confusione, per la delizia o la disperazione del
turista europeo. Ma è inutile: il caos regna su ogni possibile tentativo di
interpretazione. Dopo aver fatto la spola fra Green Line, Reed Tourist Bus e
altri, chiamo il mio contatto mingherlino che mi risponde dicendomi di
aspettarlo al bus di Swiss Travel. E nel frattempo mi consolo con un chaia,
perché sono sfatto di sonno. Una bella guida spagnola che parla nepalese,
anche lei piuttosto provata, accompagna tre o quattro suoi conterranei: mi
informo, ma i maledetti hanno il biglietto. Quello che segue sfugge
completamente a ogni possibile comprensione. Il giovane mingherlino in camicia
a quadri pulitissima non è visibilmente in grado di esercitare qualche influenza
sui suoi colleghi nepalesi più grossi, truci e sicuri di sé. Si aggira però con
sguardo preoccupato e supplicante fra questa sarabanda di colleghi (?) che
orbitano intorno all’autobus prescelto: in meno di cinque minuti il bus, già strapieno
fa per partire due volte, trattenuto solo dalle imprecazioni di questo o quel
faccendiere che sta smistando (?) gli ultimi turisti impanicati e qualche
nepalese probabilmente parente dell’autista o del faccendiere stesso o di uno
dei sei o sette tronfi che stanno lì sotto a urlare e paiono avere una
qualche tipo di voce in capitolo, anche se non si sa bene dove, come e perché.
Il mingherlino è troppo educato, non ce la può fare, ma i suoi clienti hanno
tutti e quattro il biglietto, perciò li spinge sul bus prima che sia troppo
tardi; io assisto pressocché impassibile, sono dentro un flusso che non posso
comprendere, figuriamoci controllare e quando ritengo che non vi sia ormai più
nulla da fare, visto che per altro non ho neanche pagato uno straccio di
tangente ai tremebondi, il mingherlino in silenzio mi accompagna a mettere i bagagli
insieme ai quattro inglesi… i miei sono gli ultimi ed entrano appena! Poi come
un automa seguo i quattro scortati dal mingherlino (ora mi è chiara la sua strategia!
Facciamo parte dello stesso gruppo, non ci possono dividere). Al volo pago a
questo ragazzo mite lo stesso prezzo che avrei pagato il biglietto: 1000 rupie.
Mi sembra poco, ma non ho il tempo di elaborare altre informazioni, dobbiamo
correre se no l’autista ci lascia a piedi e addio bagagli. Sembra incredibile,
ma sono sul bus, in piedi, insieme ad altre sette otto persone tutte nella
stessa situazione… Il che, invece di scatenare inevitabili (per noi) isterismi
e proteste, genera una tranquilla gara di solidarietà. Un ragazzo nepalese
insiste per fare spazio accanto a lui, si stringe e mi fa sedere. Iniziamo a
parlare, ha studiato chimica e ora va a Pokhara in vacanza… “we have to help
each other… this is difficult situation…”, praticamente mi dà una lezione di
solidarietà, a me, occidentale imbucato.
Inizia così questo
viaggio, uno dei più belli che abbia mai
fatto in autobus. Proprio perché scomodi e pigiati come sardine siamo
tutti
solidali, sorridenti, quasi divertiti da questa emergenza. Persino i
quattro
inglesi, passato il primo shock si rilassano e chiacchierano con i
nepalesi,
sempre curiosi e chiacchieroni. C’è un po’ di tutto sul bus: la giovane
mamma
con il bambino che stende le gambe su due altri passeggeri (la cosa
appare
scontata, il fastidio è un concetto alieno quaggiù), una coppia di
anziani
sdentati in abiti tradizionali, un paio di signore grasse con enormi e
pesantissime buste che tutti aiutano a spostare, un tipo dai lineamenti
mongoli
ben vestito e sgabello-munito che si siede nel corridoio e finalmente il
mio
prossimo amico, un monaco buddista sulla sessantina che sale alla
seconda
fermata, poco fuori il centro di Kathmandu. Dopo un tentativo di
conversazione
con la ragazza inglese che mi è più vicina, nei vari spostamenti mi
ritrovo
appiccicato al tipo mongolo che attacca bottone e per altro abbastanza
presto insiste
per farmi sedere sul suo sgabello “it is long trip!”, dice, e certo non
ha
tutti i torti, il viaggio dura in media sette ore. Mi racconta un po’ la
sua storia, si chiama Leo, ma ha un
accento così terribile che capisco a malapena che cosa dice. Leo lavora
per una
impresa di costruzioni e si vede che sta abbastanza bene e infatti mi
parla
della sua casa, delle sue due auto e mi mostra le foto sul cellulare del
bel tempio
buddista che stanno decorando a Kathmandu. Sul suo cellulare si vedono
testi in
caratteri cinesi e gli chiedo se lo conosce: all’inizio non capisce, poi
però
si illumina e mi spiega che ha vissuto per sedici anni in Cina (ha anche
un
nome cinese: Xuxiao), facendo vari mestieri; per qualche ragione il suo
passaporto, che ci tiene e mostrarmi, è pieno di visti per la Cina
rilasciati dall’ambasciata
cinese in Nigeria. Essendo buddista, dopo un po’ attacca bottone anche
con il monaco, ed è così che entro in contatto con Tuthpen Choyng Lama,
il quale non è
nepalese ma tibetano e vive a Dharamsala, il luogo dell’esilio del Dalai
Lama.
Sono emozionato di parlare finalmente con lui, l’ho sperato fin da
quando era
salito! Tuthpen ha avuto un 'permesso' di tre mesi per visitare i suoi
genitori al
campo profughi di Jampaling, vicino Pokhara. Ovviamente l’informazione
mi
colpisce, così gli riassumo entusiasticamente la mia esperienza, il
lavoro al
campo profughi della ONG con la quale collaboro, ecc. Lui sembra
interessato,
ma nemmeno eccessivamente, è un uomo cortese, gioviale, dall’aria
estremamente
pratica. Ogni tanto, visto che sono in piedi, mi
fa
segno di sedermi sul bracciolo del sedile del mio vicino di destra, che
ricambia la cortesia addormentandosi con la testa sulla mia schiena…
Il bus per fortuna fa una serie di fermate ristoratrici e
dopo un masala tea e una pipì veloce facciamo una tappa più lunga in un bel
ristorante sull’ansa di un fiume, dove gli occidentali si snobbano reciprocamente
e in compenso Leo-Xuxiao mi offre un chai (tutti, durante questo
viaggio, mi offriranno qualcosa…pare incredibile ma questo è il Nepal).
Il viaggio prosegue e Tuthpen dopo avermi ghermito al volo salvandomi
da una frenata dell’autista (che per altro scoprirò essere suo parente), risponde
volentieri alle mie domande, fra cui l’origine del suo nome: a quanto capisco,
ma non ne sono sicuro, si tratta del nome di un maestro di “His Holiness”, Sua
Santità il Quattordicesimo Dalai Lama.
Nell’ultima fermata-pipì, quando ormai noi tre (Xuxiao,
Tuthpen e il sottoscritto) sembriamo tre amici in gita scolastica, succedono
due o tre cose notevoli: la prima: Tuthpen tira fuori un pacchetto di biscotti e mi
dice “questi sono per te my friend!” Come per me? Ma no, mi schermisco, non
posso accettare, che li porti ai suoi parenti al campo profughi! Niente, "io ne ho un altro", mi fa e pare
che si offenda se non li accetto per cui me li prendo e li ficco nello zaino
senza controbattere. Secondo, una farfalla nera e arancio, grossa come un
pipistrello, quasi si possa addosso al mio volto mentre cerco di fotografarla
con il cellulare; terzo, dopo aver chiesto a Xuxiao di farmi una foto insieme
a Tuthpen, trovo per terra una strana vecchia moneta bucata al centro e con ai
lati dei segni che potrebbero sembrare ideogrammi semplificati. La mostro a
Xuxiao e senza sembrare troppo sorpreso mi dice che probabilmente si tratta di
una moneta cinese antica… di almeno cinquecento anni. Di 'almeno' cinquecento anni? Ma ho
capito bene? Sì, ribadisce, e per rafforzare il concetto tira fuori dal suo marsupio altre due antiche monete cinesi vecchie, secondo lui, di mille anni… Non
ci capisco più nulla, ma come? Se le porta appresso come portafortuna? E io ne trovo una
simile ai piedi di un monaco tibetano e accanto a lui che “per caso” ne fa
collezione? Guardo Tuthpen, ma anche lui non sembra un gran che colpito, per
loro evidentemente deve essere come se avessi trovato un tappo della birra.
Vabbè, dico, magari sarà falsa, e me la metto in tasca. Poi commento a Tuthpen:
“che strana combinazione! Noi ci facciamo la foto insieme ed esattamente in
questo punto io trovo questa moneta! Forse è un segno che devo diventare
buddista?” Lui sorride con un gorgoglìo, anche se probabilmente non ha
capito che cosa ho detto, o forse sì, ma è troppo in gamba per rispondere.