martedì 17 novembre 2015

Diario Nepalese (1)

Sono arrivato a Kathmandu dopo giorni di grande tensione a Roma. Come spesso accade, una parte di me non voleva partire. Due notti prima della partenza ho sognato un mostro antropomorfo chiuso nel centro della terra, protetto da una serie di caverne concentriche, una dentro l’altra, che io vedevo scorrere e “aprirsi”, come in un sequenza cinematografica, fino al suo apparire, che mi lasciava terrorizzato e senza fiato... E’ con questo stato d’animo, e un forte senso di insicurezza addosso, che sono atterrato dopo un viaggio più breve del solito a Kathmandu.

La prima notte ho avuto un incubo: entravano nella mia stanza del Potala e rubavano tutto. Me ne rendevo conto quando era ancora notte e piangendo disperato scendevo alla reception e un tipo dell'albergo (nessuno fra quelli che conosco) non sembrava minimamente toccato dalla gravità di quello che mi era accaduto, finché a un certo punto, di fronte alla mia disperazione, tirava fuori una scusa qualunque, tipo “ma perché tu hai lasciato tutte quelle cose in camera?”
Il giorno dopo è andata molto meglio. La mattina tardi ho fatto colazione-brunch sotto il pompelmo del Pumpernickel e fino alle 14.30 ho bighellonato per Thamel, facendo qualche foto, esplorando con prudenza un paio di vicoli, dove ancora sono ammucchiati i calcinacci del terremoto. Per curiosità sono andato a vedere se la libreria cinese fosse ancora al suo posto: era sempre lì, sotto i portici di fronte al Pumper. Ma stavolta non c’era la ragazza cinese con la quale avevo discusso animatamente sul Tibet… Così non sono stato distratto e mi sono messo a curiosare sugli scaffali, scoprendo subito un paio di volumi affascinanti: uno sulla storia degli scambi culturali fra Cina e Occidente, l’altro, scritto da una studiosa francese, sulla regione a maggioranza musulmana della Cina, dove vive l’interessantissima etnia Hui. 

Al mio ritorno in hotel ho constatato che non si trovavano biglietti per Pokhara e ho iniziato un pellegrinaggio per le “travel agencies” di Thamel, vere e proprie trappole (non è una metafora) per turisti che offrono tutte gli stessi pacchetti di escursioni. Si tratta perlopiù di ufficietti scalcinati e spesso puzzolenti di orinatoio, composti di scrivania, un omino e un computer (talvolta questi elementi possano raddoppiare il numero, pur rimanendo costante la proporzione). Dopo averne provati quattro o cinque, entro in uno dove c’è una puzza più asfissiante delle altre e mi accoglie un ragazzetto dai lineamenti tibetani molto sveglio e ciarliero. Gli chiedo se hanno biglietti bus per Pokhara e mi risponde ovviamente di no, indicando un altro ragazzetto mingherlino e silenzioso, il quale sarebbe impegnato a risolvere lo stesso problema per un gruppo di loro clienti. Gli spiego che devo essere assolutamente a Pokhara l’11 ottobre, il giorno seguente, perché devo raggiungere un gruppo in missione umanitaria. Alla fine il tibetano sveglio tutto contento mi dice: “prova ad andare alla bus station presto… Sono sicuro che domani riuscirai a partire, magari in piedi ma ci riesci!”. Con questo viatico e il numero di cellulare del mingherlino in tasca, mi avvio al mio appuntamento con Nabin, il ragazzo wikipediano conosciuto in luglio a Città del Messico. Quasi tutta la sera insieme al suo amico ingegnere parliamo della situazione del Nepal e del blocco dei rifornimenti. La frase che mi colpisce di più è “Nepal is the political playground of China and India”. Forse è proprio grazie a loro che inizio a capire la gravità della situazione che rischia di trasformarsi in una nuova emergenza umanitaria.  

La notte stavolta scorre liscia, o si fa per dire, perché alle 4.30 mi sveglia il gallo del Potala. Mi addormento per un’altra oretta, sognando ancora (non ricordo che cosa ma è inerente), poi alle 5.30 inizio a prepararmi.  Il ragazzo del Potala che mi aiuta con i bagagli è puntualissimo, alle 6.20 siamo già a Kantipath, la larga strada dove si fermano gli autobus. Sono pochi, non più di quattro o cinque.

Le facce sperdute e assonnate degli escursionisti occidentali non presagiscono nulla di buono e in effetti mi ci vuole poco per capire che sarà una lotta all’ultimo strapuntino. Come al solito colpisce e affascina la, come dire, ‘ontologica’ mancanza di gerarchia (?) e organizzazione del “setting” orientale. Si rinnova dunque ai miei occhi il consueto balletto in cui vari individui, di autorità variabili, ma del tutto invisibili all’occhio occidentale, urlano, ridono, gesticolano, si passano soldi e pacche sulle spalle, salgono e scendono dai bus, non si capisce se come autisti, passeggeri, guide, bagarini o semplici curiosi che stanno lì apposta a creare ulteriore confusione, per la delizia o la disperazione del turista europeo. Ma è inutile: il caos regna su ogni possibile tentativo di interpretazione. Dopo aver fatto la spola fra Green Line, Reed Tourist Bus e altri, chiamo il mio contatto mingherlino che mi risponde dicendomi di aspettarlo al bus di Swiss Travel. E nel frattempo mi consolo con un chaia, perché sono sfatto di sonno. Una bella guida spagnola che parla nepalese, anche lei piuttosto provata, accompagna tre o quattro suoi conterranei: mi informo, ma i maledetti hanno il biglietto. Quello che segue sfugge completamente a ogni possibile comprensione. Il giovane mingherlino in camicia a quadri pulitissima non è visibilmente in grado di esercitare qualche influenza sui suoi colleghi nepalesi più grossi, truci e sicuri di sé. Si aggira però con sguardo preoccupato e supplicante fra questa sarabanda di colleghi (?) che orbitano intorno all’autobus prescelto: in meno di cinque minuti il bus, già strapieno fa per partire due volte, trattenuto solo dalle imprecazioni di questo o quel faccendiere che sta smistando (?) gli ultimi turisti impanicati e qualche nepalese probabilmente parente dell’autista o del faccendiere stesso o di uno dei sei o sette tronfi che stanno lì sotto a urlare e paiono avere una qualche tipo di voce in capitolo, anche se non si sa bene dove, come e perché. Il mingherlino è troppo educato, non ce la può fare, ma i suoi clienti hanno tutti e quattro il biglietto, perciò li spinge sul bus prima che sia troppo tardi; io assisto pressocché impassibile, sono dentro un flusso che non posso comprendere, figuriamoci controllare e quando ritengo che non vi sia ormai più nulla da fare, visto che per altro non ho neanche pagato uno straccio di tangente ai tremebondi, il mingherlino in silenzio mi accompagna a mettere i bagagli insieme ai quattro inglesi… i miei sono gli ultimi ed entrano appena! Poi come un automa seguo i quattro scortati dal mingherlino (ora mi è chiara la sua strategia! Facciamo parte dello stesso gruppo, non ci possono dividere). Al volo pago a questo ragazzo mite lo stesso prezzo che avrei pagato il biglietto: 1000 rupie. Mi sembra poco, ma non ho il tempo di elaborare altre informazioni, dobbiamo correre se no l’autista ci lascia a piedi e addio bagagli. Sembra incredibile, ma sono sul bus, in piedi, insieme ad altre sette otto persone tutte nella stessa situazione… Il che, invece di scatenare inevitabili (per noi) isterismi e proteste, genera una tranquilla gara di solidarietà. Un ragazzo nepalese insiste per fare spazio accanto a lui, si stringe e mi fa sedere. Iniziamo a parlare, ha studiato chimica e ora va a Pokhara in vacanza… “we have to help each other… this is difficult situation…”, praticamente mi dà una lezione di solidarietà, a me, occidentale imbucato.

Inizia così questo viaggio, uno dei più belli che abbia mai fatto in autobus. Proprio perché scomodi e pigiati come sardine siamo tutti solidali, sorridenti, quasi divertiti da questa emergenza. Persino i quattro inglesi, passato il primo shock si rilassano e chiacchierano con i nepalesi, sempre curiosi e chiacchieroni. C’è un po’ di tutto sul bus: la giovane mamma con il bambino che stende le gambe su due altri passeggeri (la cosa appare scontata, il fastidio è un concetto alieno quaggiù), una coppia di anziani sdentati in abiti tradizionali, un paio di signore grasse con enormi e pesantissime buste che tutti aiutano a spostare, un tipo dai lineamenti mongoli ben vestito e sgabello-munito che si siede nel corridoio e finalmente il mio prossimo amico, un monaco buddista sulla sessantina che sale alla seconda fermata, poco fuori il centro di Kathmandu. Dopo un tentativo di conversazione con la ragazza inglese che mi è più vicina, nei vari spostamenti mi ritrovo appiccicato al tipo mongolo che attacca bottone e per altro abbastanza presto insiste per farmi sedere sul suo sgabello “it is long trip!”, dice, e certo non ha tutti i torti, il viaggio dura in media sette ore. Mi racconta un po’ la sua storia, si chiama Leo, ma ha un accento così terribile che capisco a malapena che cosa dice. Leo lavora per una impresa di costruzioni e si vede che sta abbastanza bene e infatti mi parla della sua casa, delle sue due auto e mi mostra le foto sul cellulare del bel tempio buddista che stanno decorando a Kathmandu. Sul suo cellulare si vedono testi in caratteri cinesi e gli chiedo se lo conosce: all’inizio non capisce, poi però si illumina e mi spiega che ha vissuto per sedici anni in Cina (ha anche un nome cinese: Xuxiao), facendo vari mestieri; per qualche ragione il suo passaporto, che ci tiene e mostrarmi, è pieno di visti per la Cina rilasciati dall’ambasciata cinese in Nigeria. Essendo buddista, dopo un po’ attacca bottone anche con il monaco, ed è così che entro in contatto con Tuthpen Choyng Lama, il quale non è nepalese ma tibetano e vive a Dharamsala, il luogo dell’esilio del Dalai Lama. Sono emozionato di parlare finalmente con lui, l’ho sperato fin da quando era salito! Tuthpen ha avuto un 'permesso' di tre mesi per visitare i suoi genitori al campo profughi di Jampaling, vicino Pokhara. Ovviamente l’informazione mi colpisce, così gli riassumo entusiasticamente la mia esperienza, il lavoro al campo profughi della ONG con la quale collaboro, ecc. Lui sembra interessato, ma nemmeno eccessivamente, è un uomo cortese, gioviale, dall’aria estremamente pratica. Ogni tanto, visto che sono in piedi, mi fa segno di sedermi sul bracciolo del sedile del mio vicino di destra, che ricambia la cortesia addormentandosi con la testa sulla mia schiena…

Il bus per fortuna fa una serie di fermate ristoratrici e dopo un masala tea e una pipì veloce facciamo una tappa più lunga in un bel ristorante sull’ansa di un fiume, dove gli occidentali si snobbano reciprocamente e in compenso Leo-Xuxiao mi offre un chai (tutti, durante questo viaggio, mi offriranno qualcosa…pare incredibile ma questo è il Nepal).

Il viaggio prosegue e Tuthpen dopo avermi ghermito al volo salvandomi da una frenata dell’autista (che per altro scoprirò essere suo parente), risponde volentieri alle mie domande, fra cui l’origine del suo nome: a quanto capisco, ma non ne sono sicuro, si tratta del nome di un maestro di “His Holiness”, Sua Santità il Quattordicesimo Dalai Lama.

Nell’ultima fermata-pipì, quando ormai noi tre (Xuxiao, Tuthpen e il sottoscritto) sembriamo tre amici in gita scolastica, succedono due o tre cose notevoli: la prima: Tuthpen tira fuori un pacchetto di biscotti e mi dice “questi sono per te my friend!” Come per me? Ma no, mi schermisco, non posso accettare, che li porti ai suoi parenti al campo profughi! Niente, "io ne ho un altro", mi fa e pare che si offenda se non li accetto per cui me li prendo e li ficco nello zaino senza controbattere. Secondo, una farfalla nera e arancio, grossa come un pipistrello, quasi si possa addosso al mio volto mentre cerco di fotografarla con il cellulare; terzo, dopo aver chiesto a Xuxiao di farmi una foto insieme a Tuthpen, trovo per terra una strana vecchia moneta bucata al centro e con ai lati dei segni che potrebbero sembrare ideogrammi semplificati. La mostro a Xuxiao e senza sembrare troppo sorpreso mi dice che probabilmente si tratta di una moneta cinese antica… di almeno cinquecento anni. Di 'almeno' cinquecento anni? Ma ho capito bene? Sì, ribadisce, e per rafforzare il concetto tira fuori dal suo marsupio altre due antiche monete cinesi vecchie, secondo lui, di mille anni… Non ci capisco più nulla, ma come? Se le porta appresso come portafortuna? E io ne trovo una simile ai piedi di un monaco tibetano e accanto a lui che “per caso” ne fa collezione? Guardo Tuthpen, ma anche lui non sembra un gran che colpito, per loro evidentemente deve essere come se avessi trovato un tappo della birra. Vabbè, dico, magari sarà falsa, e me la metto in tasca. Poi commento a Tuthpen: “che strana combinazione! Noi ci facciamo la foto insieme ed esattamente in questo punto io trovo questa moneta! Forse è un segno che devo diventare buddista?” Lui sorride con un gorgoglìo, anche se probabilmente non ha capito che cosa ho detto, o forse sì, ma è troppo in gamba per rispondere.