Dulighauri è a quaranticinque minuti circa da Pokhara, per cui chiamo
Tuthpen e gli dico che sono in viaggio. Per un paio di volte dico al giovine e indaffarato bigliettaio di avvertirmi
quando arriviamo: ma sono parole al vento. Meno male che arrivato
a Dulighauri intravedo con la coda dell'occhio Tuthpen Lama seduto sul bordo di
un muretto che mi sta aspettando! Mi scapicollo giù dal bus maledicendo il bigliettaio e le maniere
nepalesi per le quali non si dice mai “no” a uno straniero, tantomeno “non ho
capito”, per cui un po’ come anche in India sarebbero disposti a farvi
diventare matti pur di non darvi una informazione che nel loro immaginario
potrebbe deludervi. E in oriente qualsiasi cosa è preferibile a una catastrofe della forma. (Il che, forse, potrebbe spiegare l'apparente indifferenza di fronte alle catastrofi di contenuto.) Ma Tuthpen è lì, solido e sorridente, esattamente come vi
aspettereste che sia un Lama tibetano che per otto anni ha servito Sua Santità il XIV Dalai Lama nella sua abitazione privata insieme ad altri tredici monaci. E dunque dopo aver
sceso delle ripide scale ci incamminiamo su un ponte sospeso su un fiume verde
che scorre impetuoso fra enormi massi, e arriviamo a Jampaling Refugee Camp,
uno dei più importanti campi profughi tibetani della regione.
Poiché forse la cifra di questi due mesi di viaggio è stata la consapevolezza di quanto poco avessi capito finora del Nepal e dell’India, pur amando follemente entrambe queste terre, la visita alla casa dei genitori di Tuthpen Lama a Jampaling Camp costituisce uno dei momenti fondamentali, nonché il primo grande “shock”. Non è l’estrema povertà a colpirmi, né la naturale generosità di questo Lama, ma l’essere improvvisamente caduto dentro tutto ciò. Mentre siedo sul divanetto consumato del misero bilocale (uno stanzone-cucina-soggiorno ecc. e una stanza da letto in cui spicca l’altare per il pooja) mi rendo conto del mio-nostro mostruoso egoismo occidentale, delle nostre scontate abitudini, della nostra pochezza (umana ancor prima che spirituale), dei nostri vizi e delle nostre paure, che il Lama scompiglia con il suo tè tibetano salato, i biscotti “all’europea” comprati apposta per me, la frutta del giardino, il pranzo pensato e cucinato ad hoc (anche il pane), le preghiere, le ciabatte per gli ospiti, la visita al tempio buddista e finalmente l’offerta di passare lì la notte, che sono costretto a rifiutare, anche se con vergogna. Ma chi è questa persona? E io? E noi? Con quale diritto pensiamo che una casa pulita, acqua corrente, riscaldamento, un lavoro salariato e altri mille milioni di vizi e comodità ci rendano più civili rispetto a costoro?
Dopo la passeggiata al campo, con una visita al tempio dove sono conservate antiche statue del Buddha riportate dal Tibet, è il momento di ripartire. La giornata è stata scandita da brevi conversazioni e molti tè, perché il Lama parla un inglese essenziale, ma mi rendo conto che sono dentro un rituale, abilmente orchestrato, che si conclude con la visita al piccolo altare della stanza. Tuthpen, con un gesto molto semplice, ma che mi lascia interedetto, mi offre una khata, la sciarpa della benedizione, e recitando una preghiera me la cinge al collo. Custodisco con me anche le semplici preghiere che, su mi richiesta, mi ha insegnato fra un silenzio e l'altro. Poi ci avviamo insieme alla fermata del bus. Tuthpen conversa con l'autista per assicurarsi che il bus vada a Pokhara, poi sale e si siede soddifatto sulla fila accanto alla mia, aspettando che il bus parta... A un cenno dell'autista scende e mi saluta ancora una volta con gli occhi.
Il viaggio a Pokhara è più lungo del previsto. Lunghe file di automezzi di ogni tipo ai distributori restringono a una mezza corsia la già stretta strada (l'unica via di comunicazione che arriva fino a Kathmandu). Certo i Nepalesi sono abituati alle difficoltà, ai problemi, alla scarsità e anche alle calamità, come dimostra il devestante terremoto di aprile. Ma è indubbio che certi popoli della terra paghino un prezzo più alto di altri per esistere. I nepalesi non solo pagano questo prezzo senza troppo protestare, ma custodiscono ancora tesori interiori ed estoriori di inaudita bellezza. Sono felice e triste, lucido e frastornato, ubriaco di emozioni, di domande e di ex certezze che galleggiano sul mare di una coscienza sanamente in subbuglio.
Anche quando non è la terra a tremare questi luoghi ti provocano sempre il più dolce e amaro terremoto interiore: Dolce per come sono le persone che li abitano, amaro per come scopriamo di essere noi.
RispondiEliminaTommaso