venerdì 4 dicembre 2015

Il giardino del Lama


Emozioni contrastanti si mescolano al mio arrivo a Pokhara, dopo un viaggio così particolare. Arrivato nel bel mezzo di uno dei simposi più difficili di Viola, è inevitabile muoversi in punta dei piedi, anche se ciò rischia di trasformarsi in una involontaria distanza. Dopo più o meno una settimana di ambientamento, decidiamo di spostarci dal Vienna Lodge a nuovo albergo di Santosh che si trova a mezzora a piedi dal centro di Pokhara. La distanza è totalmente compensata dalla bellezza delle stanze e soprattutto dal paesaggio stupendo che ci circonda… Il lago si estende di fronte a noi circondato dalle montagne fitte di vegetazione e all’alba tutto è soffuso di nebbia. Se non fosse per la giungla fitta più che in Nepal sembrerebbe di trovarsi in una leggenda bretone.

Da quando ci siamo salutati, Tuthpen Lama mi chiama più o meno ogni giorno. Vuole sapere quando andrò a trovarlo al campo profughi di Jampaling, dove ha passato la sua infanzia e dove è tornato per passare un periodo di vacanza mentre gli anziani genitori sono in India. Queste attenzioni mi imbarazzano: la mia educazione occidentale non sa bene come classificarle e si affacciano pensieri di ogni tipo. Che cosa vorrà? Mi consulto anche con gli altri, soprattutto gli amici del Centro Studi Platone che conoscono molto meglio di me l’ambiente e le persone. In Nepal tuttavia non vi sono risposte che non siano strettamente dipendenti dall’esperienza e perciò ancora una volta mi arrendo e mi lascio trascinare dall’onda. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, il giorno della visita arriva e il tassista mi aspetta per portarmi alla stazione dei bus di Pokhara, Prithivi Chowk. La corsa in taxi, a causa del blocco dei rifornimenti dall’India, è piuttosto salata, ma senza il tassista non avrei saputo come fare a trovare il bus 'giusto'. Ce ne sono decine, arrivano e ripartono in continuazione fra strepiti e pugni sulla lamiera da parte dei "controllori" o "bigliettai" che in questo modo segnalano all’autista che può ingranare la marcia. La qual cosa può accadere svariate volte e inopinatamente, vuoi perché una signora ritardataria si aggancia alla portiera con ragazzini al collo, vuoi per ragioni arcane e inaccessibili. Non esistono fermate o nomi di località, per strada o sui bus; virtualmente ogni bus va ovunque o da nessuna parte, qui chi prende il bus sa già quale mezzo prendere perché tutto è da sempre così e loro, al contrario di noi, hanno imparato a cavarsela. Ma in qualche modo sono dentro anch’io, parecchio assonnato, con due arance giallo-verdi nello zaino, ma non dormirò, perché il volume della musica è semplicemente assordante.

Dulighauri è a quaranticinque minuti circa da Pokhara, per cui chiamo Tuthpen e gli dico che sono in viaggio. Per un paio di volte dico al giovine e indaffarato bigliettaio di avvertirmi quando arriviamo: ma sono parole al vento. Meno male che arrivato a Dulighauri intravedo con la coda dell'occhio Tuthpen Lama seduto sul bordo di un muretto che mi sta aspettando! Mi scapicollo giù dal bus maledicendo il bigliettaio e le maniere nepalesi per le quali non si dice mai “no” a uno straniero, tantomeno “non ho capito”, per cui un po’ come anche in India sarebbero disposti a farvi diventare matti pur di non darvi una informazione che nel loro immaginario potrebbe deludervi. E in oriente qualsiasi cosa è preferibile a una  catastrofe della forma. (Il che, forse, potrebbe spiegare l'apparente indifferenza di fronte alle catastrofi di contenuto.) Ma Tuthpen è lì, solido e sorridente, esattamente come vi aspettereste che sia un Lama tibetano che per otto anni ha servito Sua Santità il XIV Dalai Lama nella sua abitazione privata insieme ad altri tredici monaci. E dunque dopo aver sceso delle ripide scale ci incamminiamo su un ponte sospeso su un fiume verde che scorre impetuoso fra enormi massi, e arriviamo a Jampaling Refugee Camp, uno dei più importanti campi profughi tibetani della regione. 


Poiché forse la cifra di questi due mesi di viaggio è stata la consapevolezza di quanto poco avessi capito finora del Nepal e dell’India, pur amando follemente entrambe queste terre, la visita alla casa dei genitori di Tuthpen Lama a Jampaling Camp costituisce uno dei momenti fondamentali, nonché il primo grande “shock”. Non è l’estrema povertà a colpirmi, né la naturale generosità di questo Lama, ma l’essere improvvisamente caduto dentro tutto ciò. Mentre siedo sul divanetto consumato del misero bilocale (uno stanzone-cucina-soggiorno ecc. e una stanza da letto in cui spicca l’altare per il pooja) mi rendo conto del mio-nostro mostruoso egoismo occidentale, delle nostre scontate abitudini, della nostra pochezza (umana ancor prima che spirituale), dei nostri vizi e delle nostre paure, che il Lama scompiglia con il suo tè tibetano salato, i biscotti “all’europea” comprati apposta per me, la frutta del giardino, il pranzo pensato e cucinato ad hoc (anche il pane), le preghiere, le ciabatte per gli ospiti, la visita al tempio buddista e finalmente l’offerta di passare lì la notte, che sono costretto a rifiutare, anche se con vergogna. Ma chi è questa persona? E io? E noi? Con quale diritto pensiamo che una casa pulita, acqua corrente, riscaldamento, un lavoro salariato e altri mille milioni di vizi e comodità ci rendano più civili rispetto a costoro?

Dopo la passeggiata al campo, con una visita al tempio dove sono conservate antiche statue del Buddha riportate dal Tibet, è il momento di ripartire. La giornata è stata scandita da brevi conversazioni e molti tè, perché il Lama parla un inglese essenziale, ma mi rendo conto che sono dentro un rituale, abilmente orchestrato, che si conclude con la visita al piccolo altare della stanza. Tuthpen, con un gesto molto semplice, ma che mi lascia interedetto, mi offre una khata, la sciarpa della benedizione, e recitando una preghiera me la cinge al collo. Custodisco con me anche le semplici preghiere che, su mi richiesta, mi ha insegnato fra un silenzio e l'altro. Poi ci avviamo insieme alla fermata del bus. Tuthpen conversa con l'autista per assicurarsi che il bus vada a Pokhara, poi sale e si siede soddifatto sulla fila accanto alla mia, aspettando che il bus parta... A un cenno dell'autista scende e mi saluta ancora una volta con gli occhi. 


Il viaggio a Pokhara è più lungo del previsto. Lunghe file di automezzi di ogni tipo ai distributori restringono a una mezza corsia la già stretta strada (l'unica via di comunicazione che arriva fino a Kathmandu). Certo i Nepalesi sono abituati alle difficoltà, ai problemi, alla scarsità e anche alle calamità, come dimostra il devestante terremoto di aprile. Ma è indubbio che certi popoli della terra paghino un prezzo più alto di altri per esistere. I nepalesi non solo pagano questo prezzo senza troppo protestare, ma custodiscono ancora tesori interiori ed estoriori di inaudita bellezza. Sono felice e triste, lucido e frastornato, ubriaco di emozioni, di domande e di ex certezze che galleggiano sul mare di una coscienza sanamente in subbuglio.

1 commento:

  1. Anche quando non è la terra a tremare questi luoghi ti provocano sempre il più dolce e amaro terremoto interiore: Dolce per come sono le persone che li abitano, amaro per come scopriamo di essere noi.
    Tommaso

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